Pubblicato il

60 giorni in casa: tiriamo le somme di questa esperienza COVID-19

Non ci posso credere, eppure è successo, una vera catastrofe chiamata COVID-19.

Non mi sarei mai aspettata di vivere questa situazione: nella confusione più totale e improvvisa,  mentre la sottoscritta si barricava in casa senza esitare il mondo fuori urlava “non potete chiuderci in casa”, “finché il Virus non uccide un ragazzo  di 20 anni io continuo a fare la mia vita”, “mi state privando della mia libertà”.

Frasi forti di tutti i tipi scorrevano tra i post dei vari social: il mio sconforto più totale derivava dal vedere che le persone erano più impegnate a criticare e a sottovalutare la situazione, che a fermarsi a riflettere e capirne la drammaticità reale.

Non dimenticherò mai quei camion dell’esercito che da Bergamo portavano via i corpi di persone senza nome e cognome, senza nemmeno il conforto e la dignità di un ultimo saluto.

Il mio sconforto più totale ogni giorno cresceva, fino alla notizia della mia famiglia colpita da Covid-19: ho vissuto attimi di panico e preoccupazioni suggestionata da quello che avevo visto in TV, il non poter essere di aiuto per nessuno, di sentirti impotente e allo stesso tempo fragile.

Ho pensato alle cose più brutte, ma fortunatamente tutto si è svolto nel migliore dei modi, e allora si continua ad andare avanti, e ora c’è il il capitolo del lavoro, che come per tutti è stata la parte più dolorosa da affrontare.

Non basta chiudersi in casa quindici giorni, un mese, due mesi, il virus rimane, continua a fare vittime, non solo nell’aspetto sanitario del problema, anche e soprattutto in forma economica: tante aziende a rischio chiusura, le attività commerciali in continua incertezza perché in Italia i piccoli imprenditori sono quelli più tartassati , oggi nessuno sa se questo stop forzato continuerà, le incertezze incalzano ,  lo sgomento di tutti quanti noi continua a invadere la nostra vita con dei punti interrogativi. Quando riaprirò? Come farò? Quando riaprò, come posso mettere il locale in sicurezza, e chi paga la messa in sicurezza ? Chi  mi paga le tasse? Ma i 600 euro che fine hanno fatto? Arriveranno aiuti dallo Stato ? Queste e tante altre domande continuano a ruota libera, perché se dal governo continuano a piovere i divieti, non ci può essere il divieto alla vita e al lavoro.

E quindi si riprende in mano la propria vita e il proprio lavoro, si impara a convivere con il virus, e si mettono in campo tutte le nuove soluzioni che si possono trovare per ridare dignità e significato alle proprie giornate, sia che si vada al lavoro con guanti e mascherina, sia che si lavori da casa in smart-working.

Lo si fa con attenzione e in sicurezza, con rispetto delle regole e del distanziamento, ma rimboccandosi le maniche e inventandosi nuove soluzioni che siano di nuova utilità per i propri clienti, per i propri dipendenti e alla fine per tutta popolazione italiana. E noi accettiamo la sfida.

Pubblicato il

Birra Artigianale : quali sono le differenze con quelle industriali?

È meglio la birra artigianale o la birra industriale?

Tante sono le volte in cui abbiamo sentito questa domanda e altrettante quelle in cui si sono palesati difensori dell’una o dell’altra bionda.

La risposta è: dipende. Dal gusto, dall’occasione, da ciò che si sta cercando. Ma ci sono differenze sostanziali che bisogna conoscere, quanto meno per fare una scelta di consumo consapevole.

Cosa vuol dire birra artigianale in Italia

Fino al 2015, in Italia, il termine artigianale non era legalmente riconosciuto e tutelato, e agli stessi produttori era vietato apporre tale dicitura in etichetta. Solo a partire dal 2016 il Senato ha approvato la proposta di legge che ha sancito il significato legale di birra artigianale italiana:

“Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza e la cui produzione annua non superi i 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di prodotto per conto terzi”.

La legge specifica con esattezza alcuni parametri che ci permettono di distinguere una birra artigianale, da una invece di produzione industriale. Facciamo un po’ di chiarezza.

Birra artigianale e birra industriale: le differenze principali

Che cos’è la pastorizzazione?

La pastorizzazione è un processo di risanamento termico che permette di stanare i microrganismi potenzialmente patogeni come batteri, funghi e, nel caso della birra, lieviti. È una tecnica che garantisce l’assenza di infezioni da una parte, ma per contro omologa le caratteristiche organolettiche del prodotto.

Le industrie che utilizzano questo procedimento in catena produttiva garantiscono al consumatore finale un prodotto con tempi di conservazione più lunghi, ma anche gusto sempre uguale a se stesso e invariabile nel tempo.

Al contrario, la birra artigianale viene definita “cruda o viva” poiché, tramite la rifermentazione in fusto o in bottiglia, i lieviti continuano a lavorare preservando sapori e profumi del prodotto, oltre a renderlo differente a seconda del lotto di produzione e adatto, per certi stili di birra, a un affinamento nel tempo, come accade per il buon vino.

Cosa significa microfiltrazione

Parliamo di microfiltrazione quando il prodotto viene filtrato mediante apposite membrane che trattengono organismi potenzialmente patogeni. Rispetto alla pastorizzazione, che stermina i batteri con le alte temperature, è un processo meno invasivo, ma comunque distruttivo. Viene utilizzato in fase produttiva soprattutto per chiarificare il prodotto: ecco perché le birre industriali sono limpide e non è presente il sedimento naturale sul fondo della bottiglia, mentre le artigianali possono apparire più torbide.

Perché la birra artigianale costa di più

I microbirrifici, non a caso chiamati tali, rappresentano il 2-3% della produzione brassicola italiana totale, e i 200mila ettolitri annui sanciti dalla legge sono un obiettivo davvero ottimista per i più. Rapportate a quelle dei famosi marchi nazionali, sono cifre pressoché insignificanti, ma non se parliamo di costi.

Volumi così ridotti incidono sul costo delle materie prime e, di conseguenza, su quello del prodotto finito. I piccoli produttori non rinunciano a ingredienti di qualità per rendere uniche e riconoscibili le proprie birre, ancora di più se si tratta di birre biologiche come la “Rivincita” del birrificio Zuker; le industrie, lavorando su volumi ben diversi, abbattono i costi acquistando grandi quantità di materie prime e, a volte, utilizzando dei succedanei – il malto, in alcuni casi, può essere sostituito con tot percentuale di mais, molto più economico -, o dei concentrati con potere produttivo più efficace.

Inoltre, la birra artigianale si caratterizza anche per l’impiego di ingredienti diversi, come spezie, frutta, cacao o, nel caso della “2milapiedi” di Birra Carrù, mosto d’uva Moscato, che ne determinano l’unicità, il valore, il quid organolettico, ma anche un ulteriore rincaro finale.

A incidere sul prezzo a scaffale sono poi le accise, ovvero la tassazione imposta sulla quantità di mosto fermentescibile. Parliamo di circa 37€ per ettolitro circa che, per un microbirrificio medio in cui lavorano da 1 a 3 persone, costituiscono un costo non indifferente, anche considerando che, in Italia, la birra è l’unica bevanda alcolica da pasto a essere tassata; per il vino l’accisa è a zero.

Artigianale o industriale: quale scegliere?

Come già accennato, la birra industriale è omologata per uno scopo ben preciso: conquistare una buona fetta di mercato assicurando un prodotto standard nel tempo e per ogni acquisto. Esistono edizioni speciali, linee di produzione nuove dettate dalle esigenze del mercato, ma in generale si garantisce al consumatore un prodotto sicuro da scegliere e che non riservi sorprese in termini di gusto o tempi di conservazione.

La birra artigianale è l’esatto contrario. Naturalmente, un mastro birraio ha un certo tipo di costanza per le proprie ricette, ma, pur essendo la stessa birra, ci sono sfumature organolettiche diverse da un lotto di produzione a un altro. Non manca poi la sperimentazione, la passione nel ricercare ingredienti diversi e combinarli con equilibrio per realizzare ricette che creino attesa e stupore nel consumatore. La birra artigianale è un’idea che diventa il sorso in cui c’è sempre da aspettarsi qualcosa di nuovo.

Accade così anche per “la Pils della Graziella” del Birrificio Gritz che produce birre senza glutine per permettere ai celiaci e agli intolleranti di poter gustare una birra di qualità.

 

Ecco perché dipende. C’è una birra migliore a seconda di ciò che il consumatore cerca, ma non in assoluto. Coloro che amano un certo tipo di gusto, la birra ghiacciata e la poca schiuma preferiranno una produzione più industriale e sicura, mentre coloro che amano ricercare sapori nuovi, particolari e da degustare sceglieranno una birra artigianale, nonostante i costi meno economici.

 

Noi di Mangify selezioniamo le migliori birre italiane, quelle che ci conquistano fin dal primo assaggio e non vediamo l’ora di farti conoscere.

Raggiungiamo i microbirrifici, uno per uno, per incontrare di persona i mastri birrai e abbracciare i valori in cui credono; toccare con mano le materie prime e comprendere le peculiarità di ciò che riempie il nostro bicchiere. Solo così possiamo darti la certezza di poter reperire un prodotto di qualità, unico.

Bionde, rosse, con mosto d’uva Moscato, biologiche o birre senza glutine? Scoprile subito tutte!

Pubblicato il

Intolleranza e giusto confine

Oggi vorrei parlarvi di un tema molto attuale e che colpisce come un’altissima percentuale ormai della popolazione mondiale: le intolleranze alimentari. Pur non essendo preparata tecnicamente su questo argomento, spesso rifletto sulla mia intolleranza, che a tratti sembra provenire da qualsiasi sostanza io mangi, tanto da chiedermi se non sia intollerante anche alle persone intorno a me.

A sentire mio padre, fornaio di vecchia data, deriva da troppa raffinatezza negli alimenti, troppa ricerca nel trovare qualcosa di diverso, fuori da quelli che erano i canoni delle ricette genuine di una volta.

Quando affrontiamo certi discorsi, arriva come un fiume in piena nel raccontare quelle che sono le idee di un uomo che fondamentalmente concede le rivisitazioni delle ricette, la ricerca di prodotti genuini, ma non nello sconvolgimento e nelle nella sofisticazione dei prodotti uscendo da quello che è la loro natura. Oggi giorno un po’ è così in tutti i campi: l’apparenza è più importante della sostanza.

Continua a leggere Intolleranza e giusto confine

Pubblicato il

Progettare qualità: come nasce Mangify

Sono nel campo alimentare da sempre, lavorativamente sono nata nell’azienda di panificazione dei miei genitori che mi hanno trasmesso la dedizione verso il lavoro e per il sacrificio come loro hanno fatto per una vita.

Sono limpidi i ricordi della scia per strada che lasciava il profumo di pane quando al mattino andavo a scuola, e quei ricordi ancora impressi ora si sono trasformati in bagaglio di esperienza fatti di sacrifici, fallimenti e soddisfazioni, tutto fa parte di quello che è la vita.

Come molti italiani miei coetanei, ero in cerca di una posizione lavorativa, non volevo buttare via tutta la mia esperienza, ma per il mondo del lavoro di oggi sembrava essere poco rilevante.

Per orgoglio personale non potevo continuare a coprire posizioni che non rispecchiavano la mia personalità, così ho rivalutato le mie esperienze di questi ultimi anni come agente di commercio.

Continua a leggere Progettare qualità: come nasce Mangify